CORTE D'APPELLO DI CATANZARO 
                          I Sezione penale 
 
    La  I  Sezione  penale  della  Corte  d'appello,   composta   dai
magistrati: 
    1. dott. Fabrizio Cosentino - Presidente; 
    2. dott.ssa Francesca Garofalo - consigliere; 
    3. dott. Antonio Saraco - consigliere, 
nel deliberare sulla richiesta di revisione proposta per M. C. nato a
... il ..., con  ricorso  iscritto  al  n.  6/16  REV.  della  Corte,
all'esito dell'udienza camerate odierna, sentite le parti; 
 
                          Osserva e rileva 
 
    M. C., tramite  il  proprio  difensore  e  procuratore  speciale,
propone richiesta di revisione ex art. 630 codice di procedura penale
avverso la sentenza della Corte d'appello di Reggio  Calabria  emessa
il 16 aprile 2015, divenuta irrevocabile in data 9 marzo 2016, con la
quale veniva definitivamente inflitta la pena di anni sei e mesi otto
di reclusione in relazione ai capi C) [esclusa  l'aggravante  di  cui
416-bis, comma 2 c.p.] e P) della rubrica. 
    In primo grado, il giudice per le indagini preliminari presso  il
Tribunale di Reggio Calabria [sentenza 4 giugno 2013, 94 dal nome  di
una  delle  imprese   posto   sotto   sequestro],   nell'ambito   del
procedimento 458/2011 RGNR mod. 21 dda,  riconosceva  colpevole,  del
reato di associazione di stampo  mafioso,  per  aver  preso  parte  a
gruppo di 'ndrangheta denominato «cosca» quale uomo di fiducia di  A.
N. P. e  R.  D.,  con  il  empito  di  accompagnare  i  familiari  di
quest'ultimo alle visite presso i parenti detenuti, di  riscuotere  i
proventi di attivita' estorsive ed il recupero  dei  crediti  vantata
dai sodali detenuti, con l'aggravante della disponibilita' e dell'uso
di armi, oltre quale reato fine, di aver  tentato  di  estorcete  una
somma di denaro ad un imprenditore «non meglio identificato». 
    Il ricorrente osserva di  essere  stato  giudicato  con  il  rito
abbreviato, mentre altri soggetti cui  veniva  contestato  lo  stesso
reato (sempre aderenti alla cosca ) venivano giudicati dal  Tribunale
di Reggio Calabria in dibattimento, conclusosi  con  la  sentenza  n.
606/14. 
    Con tale secondo giudicato, anch'esso  divenuto  definitivo,  per
omessa interposizione di impugnazione, veniva ritenuta  insussistente
l'aggravante di cui al quarto comma dell'art. 416-bis  codice  penale
(pag. 210 della sentenza indicata), 
    Trattandosi di un unico originario procedimento penale, M. chiede
rilevarsi  il  contrasto  di  giudicati   sul   capo   che   concerne
l'applicazione   della   predetta   aggravante,    con    conseguente
modificazione della pena. 
    Il P.G. d'udienza ha eccepito che non puo' darsi in tal  caso  il
rimedio  della  revisione,  facendo  la  norma  procedurale  espresso
riferimento  ai  casi  da  cui  discende   un   effetto   di   totale
proscioglimento e non anche a quelli in cui il contrasto riguardi una
circostanza  aggravante,  chiedendo  dichiararsi   inammissibile   il
ricorso, cosi come costantemente affermato  dalla  giurisprudenza  di
legittimita'. 
    La   Corte,   nel   procedere    a    valutare    preliminarmente
l'ammissibilita' del ricorso, ha  verificato  che  e'  giurisprudenza
costante  quella  di  disattendere  la  rilevanza  di  questioni  che
attengono all'esclusione  di  un'aggravante:  l'art.  631  codice  di
procedura penale e' del resto chiaro nel  limitare  il  diritto  alla
revisione a quegli elementi tali da  accertare  -  ove  dimostrati  -
esclusivamente «che il condannato  deve  essere  prosciolto  a  norma
degli articoli 529, 530, o 531». 
    Il diritto vivente  esclude  pertanto  interpretazioni  estensive
della disposizione che consente l'accesso al rimedio della revisione,
limitandone l'ambito di ammissibilita' ai soli casi  che  determinino
la  necessita'  di  procedere  ad   integrale   proscioglimento   del
condannato [per tutte e da ultimo, con accenno anche al dubbio  sulla
coerenza sistematica e costituzionale della disposizione limitatrice,
Cass. Pen., Sez. I, n. 20470 del 10 febbraio 2015]. 
    Risulterebbe quindi precluso al condannato  far  valere  uno  dei
presupposti di cui all'art. 630 codice di procedura penale - tra  cui
e' incluso la mancata  conciliazione  tra  opposti  giudicati  -  per
evitare l'applicazione di una circostanza aggravante, estromessa  per
il medesimo reato da altra sentenza definitiva. 
    Nel caso di specie, si verifica che mentre per  altri  componenti
della medesima cosca di  appartenenza,  persino  posti  in  posizione
apicale, una sentenza esclude la  disponibilita'  di  armi  da  parte
della associazione mafiosa, tale circostanza rimarrebbe addebitata al
partecipe, che ha seguito diversa  strada  giudiziaria,  ma  che  ove
fosse stata giudicato in dibattimento assieme ai coimputati,  avrebbe
ricevuto diverso trattamento. 
    Il risultato contrasta con i valori costituzionali di eguaglianza
e parita' di trattamento, diritto alla difesa, finalita'  rieducativa
della pena, e del giusto processo di cui agli articoli 3,  24,  27  e
111 Cost. 
    In particolare, la questione appare non manifestamente infondata,
in quanto, se ogni condannato ha diritto  a  provare,  in  deroga  al
principio della intangibilita' del  giudicato,  la  propria  completa
innocenza, laddove  una  sentenza  pronunciata  in  diverso  giudizio
contrasti con  l'affermazione  della  propria  responsabilita',  lede
medesimo diritto la mancata  possibilita'  di  ottenere  declaratoria
sopravvenuta di insussistenza di una circostanza aggravante, ossia di
una parte della condotta contestata, che abbia  effetto  sulla  pena,
esclusa in  fatto  da  altro  giudicato,  con  efficacia  analoga  al
proscioglimento completo. 
    Trattasi, con  evidenza,  di  due  situazioni  sostenute  da  una
medesima ratio. Viene quindi leso il criterio  della  ragionevolezza,
insito nel valore  di  eguaglianza  iscritto  dai  padri  costituenti
all'art. 3 della nostra Carta fondamentale, che richiede sia  offerta
identica soluzione a situazioni  assolutamente  parificabili.  Se  il
condannato puo', sulla base di un contrasto tra  giudicati,  ottenere
una revisione del proprio giudizio di  colpevolezza  nel  suo  intero
(tertium comparationis), non si vede perche' il medesimo diritto  non
possa essere riconosciuto al condannato, che  intende  escludere  dal
proprio  giudizio  di   responsabilita',   una   parte   -   peraltro
particolarmente significativa  -  della  condotta,  qualificata  come
aggravamento della pena, in relazione alla quale e' sempre  richiesto
un grado  di  colpevolezza  (nella  specie,  il  dolo).  La  rilevata
differenza  di  trattamento  giuridico   non   appare   razionalmente
giustificata,  iscrivendosi  oltretutto  in  un   filone   largamente
riconosciuto di tutela del cittadino  da  provvedimento  di  condanna
ingiusta, ad ampio spettro, con istituti che vanno dalla  riparazione
dell'errore giudiziario, alla riparazione della ingiusta  detenzione,
dal ricorso straordinario per errore materiale o di fatto al  giudice
di legittimita', alla revisione del giudizio di condanna. 
    Proprio  in  tema  di  riparazione  dell'errore  giudiziario,  il
giudice delle leggi ha da tempo affermato come l'art. 24 Cost. assuma
rilievo preminente, posto che la  norma  costituzionale  «enuncia  un
principio di altissimo valore etico e sociale, che  va  riguardato  -
sotto il  profilo  giuridico  -  quale  coerente  sviluppo  del  piu'
generale principio di tutela dei diritti inviolabili dell'uomo  (art.
2) assunto  in  Costituzione  tra  quelli  che  stanno  a  fondamento
dell'intero  ordinamento  repubblicano»  [Corte  cost.  sentenza   15
gennaio 1969 n. 1]. La norma garantisce al cittadino piena tutela dei
propri diritti e del diritto alla difesa, riservando  alla  legge  le
sole modalita' di riparazione degli errori giudiziari. E si tratta di
diritto inviolabile. 
    Il richiamo al diritto dello  Stato  di  stabilire  le  modalita'
attraverso  cui  riparare  gli  errori  giudiziari  implica  che   al
condannato venga riconosciuto uno strumento di accesso per consentire
di rilevare la presenza dell'amore, che non pare ragionevole limitare
ai soli casi di cui discende la completa  esclusione  della  condotta
riprovevole e non soltanto una  frazione  della  stessa,  qualificata
come circostanza, in grado di influire sulla pena. 
    Una lettura complessiva delle disposizioni richiamate implica che
nessun cittadino puo' essere condannato ad una pena restrittiva della
liberta' personale, per un fatto  che  non  sia  stato  completamente
accertato, al di la' di ogni ragionevole dubbio. 
    L'esclusione delle aggravanti dal giudizio di revisione contrasta
poi anche con l'art. 27, terzo comma della Costituzione, che richiede
trattamenti  sanzionatori  tesi  alla  rieducazione  del  condannato:
sapere di dover scontare una (parte di) pena per una circostanza  che
per altri imputati, per il medesimo reato, e' stata da  altro  organo
giudiziario definitivamente  esclusa,  appare  in  conflitto  con  la
finalita' rieducativa,  poiche'  comporta  ai  condannato  l'evidente
percezione di subire una sanzione ingiusta e discriminatoria. 
    Il  contrasto  con  la  norma  sul   giusto   processo   discende
dall'osservare come l'art. 111 riservi ad ogni cittadino accusato  di
un delitto un giudizio «equo e  imparziale»:  la  percezione  di  non
imparzialita'  del  giudizio  emerge  dal   contrasto   tra   opposti
giudicati,  di  cui  l'uno  esclude  la  fondatezza  dell'altro.   Il
cittadino avverte, in tal caso che mentre per un suo  pari  e'  stato
deciso favorevolmente una determinata questione, nei  suoi  confronti
altro giudice  ha  adottato  una  decisione  diametralmente  opposta,
ditalche', ove l'imputato - come nel caso di specie -  avesse  scelto
di essere giudicato insieme agli altri in dibattimento, anziche'  dal
giudice monocratico dell'abbreviato, avrebbe ricevuto un  trattamento
piu' favorevole. L'imparzialita', sia pure rilevata ex post non  puo'
che riflettersi sulla  ingiusta  condanna  per  un  fatto  che  altro
giudice  della  Repubblica  ha  valutato   diversamente,   sia   pure
limitatamente ad un determinato  aspetto  della  condotta.  Ne'  puo'
addossarsi al condannato gli effetti  della  scelta  di  un  percorso
processuale,  che  attiene  alle  forme  del   rito   e   agli   atti
utilizzabili,  ma  non  anche  all'accettazione  incondizionata   dei
risultati probatori. 
    Valga osservare che la ratio dell'istituto della revisione non e'
solo quello di tutela del cittadino da condanne  ingiuste,  ma  anche
dell'interesse della giustizia a non infliggere inutilmente pene  nel
caso di decisioni contrastanti, che pongono evidentemente  il  dubbio
sull'accertamento effettuato, oltre  che  di  perseguire  parita'  di
trattamento e decisioni tendenzialmente uniformi negli  stessi  casi,
affrontati da giudici diversi (una giustizia uguale per tutti). 
    La rilevanza della questione discende dall'osservare che, ove  la
stessa venisse accolta,  e  ritenuta  ammissibile  la  revisione,  M.
potrebbe vedersi riconosciuta la possibilita' di  ottenere  una  pena
diversa da quella, come calcolata dal primo giudice: pena  base,  per
il reato associativo, minimo della pena di cui al quarto comma, nella
versione edittale corrispondente al  tempus  commissi  delicti,  nove
anni, aumentata di anni uno per la continuazione, ridotta per il rito
ad anni sei e mesi otto. 
    Nel caso di esclusione dell'aggravante, il nuovo  range  edittale
non partirebbe piu' dal minimo di anni nove, bensi'  da  sette  anni.
Ove accolta l'eccezione di costituzionalita', escludendo l'aggravante
della disponibilita' delle armi, e ritenuto fondato  il  giudizio  di
revisione in  ipotesi  di  contrasto  tra  giudicati,  il  condannato
potrebbe vedersi riconosciuta una pena minore. 
    Si pone quindi la questione di intervenire sull'art.  631  codice
di procedura penale statuendo contrasto della norma con gli  articoli
3, 24, 27 e 111 della Costituzione, nella parte in cui la  norma  non
prevede che gli elementi in base ai  quali  si  chiede  la  revisione
siano  tali  da  dimostrare,  se  accertati,  l'esclusione   di   una
circostanza  aggravante  che   abbia   negativamente   influito   sul
trattamento sanzionatorio del condannato.